Cass., sez. IV, 2 febbraio 2021, n. 3940

La Suprema Corte di Cassazione, nell’arresto in parola, ha affermato in punto di diritto che minacciare l’ex amante di raccontare dell’esistenza della relazione clandestina al marito di lei integra il delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p., meglio conosciuto come stalking.

La vicenda può riassumersi come infra:

La Corte d’Appello, decidendo in sede di rinvio, confermava la sentenza di primo grado in relazione all’affermazione della penale responsabilità del reo per il reato di atti persecutori di cui all’articolo 612 bis c.p., compiuto per l’appunto in danno della sua ex amante, parte lesa.

L’imputato era già stato assolto in appello da altri contestati reati, mentre era stato condannato per ulteriori delitti, condanna divenuta definitiva a seguito della sentenza della Corte di Cassazione del marzo 2019, la quale aveva respinto il ricorso del reo in relazione a tali delitti, rinviando al giudice di merito solo in relazione al reato in parola. In particolare, nel giudizio rescindente, la Suprema Corte aveva ritenuto che la sentenza di merito, accertate le condotte dell’imputato, non avesse motivato in ordine alla verificazione di (almeno) uno degli eventi alternativamente considerati dalla fattispecie di cui all’articolo 612 bis c.p., ai fini della sussistenza del reato.

La Corte territoriale, in sede di rinvio, aveva ritenuto la sussistenza del reato in questione, sul presupposto che le condotte persecutorie messe in atto dall’imputato avessero ingenerato nella donna quantomeno un evento di danno consistente in un perdurante e grave stato di ansia o di paura.

Avverso detta sentenza, il reo proponeva ricorso per cassazione, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del reato di cui all’articolo 612 bis c.p., in relazione alla testimonianza di un teste e per essere stata fondata la decisione su un documento non acquisito agli atti.

L’imputato deduceva quindi come non fosse stato acquisito alcun elemento che comprovasse che il sanitario avesse formulato le valutazioni cui si è riferita la persona offesa, le cui dichiarazioni sono rimaste per l’appunto prive di riscontro tecnico medico. Si aggiungeva inoltre che erroneamente la Corte territoriale non aveva ritenuto di valorizzare la testimonianza di altro teste, da cui evincersi come la donna non avesse mai avuto alcun problema nell’incontrare il prevenuto.

Quindi, il Procuratore generale, con requisitoria scritta, chiedeva l’inammissibilità del ricorso, e, con memoria ritualmente depositata, anche la parte civile ne chiedeva il rigetto, oltreché la rifusione delle spese.

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile.

I motivi dedotti, spiega la Suprema Corte, attengono chiaramente alla valutazione dei dati probatori, come tali non sono consentiti nella sede di legittimità, a fronte di una sentenza che ha motivatamente affrontato il compito – affidatole in sede rescindente – di valutare l’eventuale sussistenza di uno degli eventi integrativi del delitto di atti persecutori.

In proposito, la Corte territoriale – sul presupposto della piena attendibilità della persona offesa, valutazione che era stata già confermata dalla Cassazione nella sentenza di annullamento – ha accertato che la persona offesa, a seguito delle condotte persecutorie, era entrata in una profonda crisi ed era rimasta prostrata, tanto che aveva “perso un sacco di chili“. I giudici di merito hanno riscontrato come a cagionare alla persona offesa uno stato di grave ansia erano state proprio le ricorrenti minacce dell’imputato di raccontare al marito di lei l’accaduto, con particolare riguardo alla loro pregressa (e clandestina) relazione sentimentale. 

Nella sentenza impugnata si dà conto della testimonianza della donna, che ha spiegato – a seguito delle condotte persecutorie dell’imputato – di essere entrata in cura da un neuropsichiatra, con diagnosi di anoressia nervosa e disturbo di personalità dipendente. Dichiarazioni che in giudizio sono state riscontrate da quelle del marito di lei, il quale ha ricordato di avere assistito personalmente ad alcune condotte moleste del reo nei confronti della propria moglie, e di averla vista per tali ragioni sconvolta.

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